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Per capire, seppur in maniera parziale, che cosa vuol dire per Lars von Trier girare un film, è utile citare un retroscena, rivelato proprio da lui: nel 2003 Bjork, la cantante protagonista di Dancer in the dark, scrisse una lettera in cui consigliava a Nicole Kidman di rifiutare il ruolo che von Trier le aveva offerto per Dogville. Il motivo? Lars von Trier avrebbe mangiato la sua anima. Cosa ne sia stato dell’anima di Nicole, non ci è dato saperlo, fatto sta che l’australiana di Honolulu, di collaborare ancora col regista danese, non ne ha più voluto sapere. Bjork in effetti non esagerava. Perchè con la sua ultima – e già arcinota – opera, Nymphomaniac, il ribelle di Copenhagen si conferma divoratore di occhi e anime.

La storia è quella di Joe (Charlotte Gainsbourg), una donna che viene trovata per strada sanguinante e priva di sensi da un uomo, Seligman (Stellan Skarsgard). Portata a casa di lui, Joe racconterà a Seligman, suddivisa in otto capitoli, una vita segnata dalla dipendenza: otto capitoli che mostrano nascita e sviluppo della ninfomania nella vita della donna. Una dipendenza narrata secondo le figure di riferimento di Joe: il padre (Christian Slater), il primo amore etero (Shia LaBeouf) e quello lesbo (la giovane Mia Goth). Nel frattempo, viene fuori anche la personalità di Seligman, individuo solitario e ottimo ascoltatore.

Fra didascalie a carattere Times New Roman e la sequenza di Fibonacci ossessivamente richiamata, e ancora, fra continui richiami letterari ed improvvise e stranianti digressioni, von Trier spara alto: oltre tutte le parole buttate al vento sull’opera-scandalo, il film-hard, e tutte le altre etichette superficiali e prive di acume applicate alla sua creatura, il regista danese tenta una sintesi tra particolare e generale dal coefficiente di difficoltà altissimo. Nymphomaniac è una pellicola dallo stile composito e irripetibile, che spazia dalla fotografia sporca e dall’atmosfera crepuscolare, che riportano alla mente Nekromantik, alla sceneggiatura puntuale, glaciale e spietata, che i ragazzi del Dogma ’95 sanno costruire così bene (allo stupendo monologo di Uma Thurman penserete a Festen di Vinterberg).

 

Se vogliamo poi addentrarci nell’immenso calderone di idee e spunti che l’ultimo von Trier offre, quello che viene fuori dal sofferto e laborioso processo di sintesi, è un ambizioso ed empirico (quindi distaccato) trattato sulla donna. O meglio, sull’essere umano. O meglio ancora, sull’istinto primordiale di quest’ultimo. Perché anche nelle sequenze più esplicite, a von Trier interessa svelare ciò che c’è in profondità, piegando alla sua volontà un corpo non a caso privo di forme, quasi cadaverico, quello di Stacy Martin (la giovane Joe).

Istinto primordiale che non può che richiamare l’altro tema su cui von Trier concentra le proprie riflessioni: la Natura. Nel suo caos organizzato, von Trier crede nel determinismo di un universo che obbedisce alle leggi ancestrali, fisiche e chimiche. La già citata sequenza di Fibonacci, il concetto di polifonia, le regole di comunicazione (le 5 W per la comprensione del testo): la realtà come sequela di manifestazioni panteistiche, a cui il sesso aderisce alla stessa maniera di tutti gli altri elementi.

 

Un’ambizione enorme, che Nymphomaniac soddisfa non totalmente: il suo più grande difetto è proprio quello di esporre troppa carne al fuoco, quasi un eccesso di spunti inframezzato da pretesti, introdotti dalla Gainsbourg e Starsgard, alle volte assai deboli. Sono imperfezioni di fondo che però von Trier compensa con quella che è una struttura narrativa da maestro: il ritmo di entrambi i volumi dell’opera non cede mai né alla tentazione da effetto videoclip né si piega alle esigenze di una sceneggiatura impegnativa.

D’altra parte, se nonostante le cinque ore originarie (ridotte con l’accetta a poco meno di quattro) Nymphomaniac risulta un’opera omogenea, è anche grazie alla capacità di von Trier di piazzare le sequenze giuste al momento giusto. Di quelle da antologia, oltre al già citato grottesco monologo della Thurman, se ne ricordano almeno tre: le gambe di Stacy Martin che fanno da cornice al letto di morte, via via messo a fuoco, del padre; la scena dell’estorsione nei confronti del pedofilo inconsapevole; il finale, con le anime opposte di Joe e Seligman che, assorbendo i rispettivi segreti, per osmosi raggiungono un’anti-poetica catarsi. E poi, come sequenza bonus, giusto per ricordare al mondo la sua anima perennemente ‘contro’, von Trier piazza un’autocitazione irriverente e terrificante al tempo stesso (ricordate l’incipit di Antichrist?).

Concludendo: ‘Nymphomaniac’, se non è l’apice di Lars von Trier, è certamente il suo manifesto.

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