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Il regista di Fuocoammare, Gianfranco Rosi

“Film eccitante e originale Fuocoammare. La giuria è stata travolta dalla compassione, è un film che mette insieme arte e politica e tante sfumature. È esattamente quel che significa arte, nel modo in cui lo intende la Berlinale. Un libero racconto e immagini di verità che ci mostra quello che succede oggi. Un film urgente, visionario, necessario”. Con queste parole Maryl Streep, presidente di giuria del Festival Internazionale del cinema di Berlino, ha motivato la premiazione di “Fuocoammare”, il docu-film diretto da Gianfranco Rosi, vincitore nel 2013 del Leone d’oro a Venezia con “Sacro Gra”. Un riconoscimento al nostro cinema d’autore. In sala dal 18 febbraio, da non perdere non solo per il successo di critica, ma soprattutto per la tematica. Unico film italiano in concorso, “Fuocoammare” racconta con lucidità e pathos dei flussi migratori verso l’Italia – di cui Lampedusa è il simbolo – da due punti di vista differenti: i migranti e gli isolani.

A poche ore della conquista dell’Orso d’Oro, iniziano a emergere i retroscena della pellicola, grazie soprattutto ai racconti del regista alla stampa internazionale. Forse non tutti sanno che si tratta di un documentario, genere che restituisce la dimensione reale di una situazione così vicina, ma al tempo stesso distante. Le voci che Rosi sceglie per farsi guidare sono gli abitanti stessi di Lampedusa: lo speaker della radio locale, lo zio pescatore, il bambino Samuele e sua nonna, il medico, Pietro Bartolo, – che ha accompagnato Rosi a Berlino – voce più importante poiché meglio informato su chi arriva, chi vive e chi muore sull’isola.

L’invito a partecipare al Festival è arrivato mentre Rosi stava terminando il montaggio del film. È stato importante montare proprio sull’isola, perché con Jacopo Quadri, curatore del montaggio, aveva parlato – scherzando – di “editing method”, quel metodo di immersione totale che praticano gli attori. L’amicizia con i pescatori, i pranzi a casa della gente, il contatto diretto si è rivelato fondamentale per la realizzazione del film. Così come l’incontro con l’aiuto regista, Peppino Del Volgo, lampedusano, che gli ha dischiuso le porte di quella realtà.

Il regista ha trascorso un mese in una nave militare. Per tre settimane non è successo nulla, poi ha scoperto che si trattava di una sorta di test da parte di comandante ed equipaggio, per capire che tipo di persona fosse. Sbarcati ha chiesto di ripartire e, con il secondo viaggio, ha visto con i propri occhi la tragedia.

“Filmare la morte è stata una cosa dura e difficile”

Nel momento di decidere se riprendere o meno immagini talmente crude, racconta di aver pensato alle parole del comandante della nave: “È necessario. Come trovarsi davanti a una camera a gas durante l’Olocausto e non filmarlo perché è troppo forte”. Un film come questo è un’esperienza umana che lascia il segno, tanto che la dedica del regista è quasi scontata, ma doverosa, a tutti coloro che “non sono mai arrivati a Lampedusa, a coloro che sono morti” e allo spirito di accoglienza dei lampedusani. La sfida del regista nel realizzare Fuocoammare è stata “sdradicare il bombardamento di immagini quotidiane che ci portiamo dietro dai telegiornali. Era fondamentale cercare di raccontare da un altro punto di vista una realta che viene sempre narrata in termini di cifre, numeri: quanti sbarchi, quante vittime, quanti profughi”.

L’amore per i viaggi e il mondo si esprime attraverso tutte le pellicole di Gianfranco Rosi. Fedele al genere documentario performativo, ossia che vuole – oltre raccontare – anche scatenare nello spettatore sentimenti ed emozioni, come in questo caso compassione, solidarietà ed empatia. Applaudito e accolto con entusiasmo, questa vittoria giunge a seguito di una carriera costellata di viaggi e storie documentate con accuratezza e finezza d’animo, lontano dalle regole del broadcast. Regista ma anche etnografo e antropologo, alla vecchia maniera, profondo conoscitore dell’intimità di ciò che vuole far conoscere al grande pubblico. Dal racconto della vita lungo il Gange in India nel suo primo lungometraggio “Boatman”, ai deserti di Los Angeles in “Below Sea Level”, passando per il Messico dei killer del narcotraffico in “El Sicario – Room 64”, per finire con “Sacro Gra”, lucido racconto di storie intrecciate nel Grande Raccordo Anulare di Roma, Rosi fa della macchina da presa lo strumento attraverso il quale porre le grandi questioni dell’attualità attraverso un cinema che è arte.

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