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Canto della complessità, canto del Kaos primigenio della vita e del mondo, fatto di gesti di sguardi e di parole. Assistere a ‘Magnificat’ vuol dire intraprendere un viaggio sensoriale-emozionale-razionale in cui il teatro ritorna alle sue origini, permettendo all’attore di non essere tanto colui che racconta, bensì colui che agisce.

Il soggetto così è esaltato in quanto logos, principio fondante e misura di tutto, le cui potenzialità possono esplicarsi nei più vari linguaggi: si possono scrivere frasi con i gesti e inventare melodie e danze di parole, per scoprire poi che è lo sguardo la poesia più bella e toccante. Le varie suggestioni ‘esterne’, provenienti da letteratura, lirica, musica, pittura, sono solo ‘input’, sollecitazioni suadenti che suggeriscono senza mai intaccare una grammatica fatta di corpi umani.

Così il soggetto comunica e si esalta, non solo e non tanto nella sua individualità, quanto nella collettività che riesce a creare con gli altri soggetti-logos presenti in scena insieme a lui. È proprio in questa unione, in questo insieme magmatico e stupendamente disordinato che prende forma e si sprigiona tutta la potenza dello spettacolo. Una potenza che richiama mare, terra, fuoco e aria, che si immerge negli spazi sconfinati del nostro io e del mondo che si apre dietro lo squarcio sul proscenio del Teatro antico di Taormina; una potenza che non può non sciogliersi infine in un messaggio di pace e fratellanza affidato a delle ali blu che brillano dentro una notte ancora per poco estiva.

Si chiama ‘Teatro delle diversità’, ma ciò che colpisce di più non sono gli handicap di cui sono portatori la maggior parte degli attori: non è una sfida la loro, ma un istinto ad esistere. Così si viene investiti dall’energia e dalla luce che tutti insieme irradiano, e una sete di vita troppe volte dimenticata si risveglia di nuovo nello spettatore.

Magnificat anima mea Dominum,
magnificat anima mea mundum,
magnificat anima mea me.

[a cura di Federico Salvo]

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